Quella di Trate era una civiltà della terra, fondata su riti e rapporti con i cicli naturali, dove i luoghi sono il campo, la stalla, il fienile, a volte uniti alla casa e casa essi stessi, in condizioni di estrema sintesi tra luoghi di produzione e luoghi di vita, laddove dai campi alla casa il passo era davvero breve.
Nella sistema locale, l’economia era prettamente manuale e a conduzione familiare, dove per tutti c’era un ruolo e dove la sapienza dell’anziano era tenuta in gran conto, perché insegnava e trasmetteva abilità che non avevano altra origine che l’esperienza.
Importante, quindi, quel patrimonio di saperi e abilità oggi sempre più in bilico, dalla battitura della falce alle tecniche di allevamento e di coltivazione, in epoche in cui un raccolto problematico o la perdita di un animale domestico significava letteralmente fame e miseria.
Il lavoro aveva la sua gerarchia e la sua organizzazione, dove l’apprendistato avveniva per emulazione, in famiglia e in diretta tramite l’esperienza, e dove alla dura fatica andava accompagnata una particolare abilità, che ove riconosciuta definiva e attribuiva un preciso status di prestigio sociale, oltre che professionale.
Il maggior vanto possibile era costituito dall’eccellere nella propria attività, qualunque essa fosse, anche se la specializzazione era tutto sommato rara, in quanto, comunque tutti sapevano fare un po’ di tutto, più di necessità che per reale vocazione.
Esistevano, comunque, ambiti specifici, soprattutto artigianali, che costituiscono il giacimento di saperi su cui si è sedimentata la tipicità dei luoghi e dei prodotti che da questi provengono.
Il lavoro poteva essere anche festa, ad esempio quando veniva il tempo del raccolto del mais o della vendemmia o della distillazione della grappa o dell’uccisione del maiale, vero e proprio rito contadino che coinvolgeva tutta la famiglia e anche più di una, secondo le possibilità.
Ecco allora tutta la fatica e l’attesa dell’anno riversarsi sull’evento, che era pur sempre ambito di lavoro ma con il seguito di soddisfazioni a lungo represse e rinviate. Quel pane, quel vino, quella polenta, quei salumi, quel bisogno finalmente saziato, erano il coronamento di un percorso, nel quale far confluire il sapore e l’anima di un luogo, per poter dire, anche nel prodursi di che vivere, io sono di qui, e quel che mangio è diverso dal quello che si mangia fuori, altrove.